SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata il 13 e 17 febbraio 1987 l'avv. ___ convenne in
giudizio, innanzi al Tribunale di Roma, l'Amministrazione finanziaria dello
Stato ed ___, in proprio e quale intendente di finanza di Roma all'epoca dei
fatti, lamentando che, dopo che egli aveva definito per condono il proprio
debito tributario per IGE, ricchezza mobile e complementare degli anni
1969-1973, gli era stato invalidamente notificato, presso un domicilio errato,
un nuovo accertamento per i medesimi tributi; che le Commissioni tributarie di
primo e secondo grado avevano respinto i suoi ricorsi; che la condotta dei
pubblici funzionari integrava estremi di reati; che da cio', oltre al danno
della duplicazione del pagamento d'imposta, erano altresi' derivati danni
morali.
L'Amministrazione resistette, mentre il ___ non si costitui'.
Il Tribunale rigetto' la domanda.
Il ___ impugno' la sentenza innanzi alla Corte di appello di Roma, la quale,
con sentenza del 12 luglio 1993, rigetto' il gravame. Osservo' la Corte che il
___, neppure in appello, aveva prodotto gli avvisi di accertamento, la
cartella esattoriale e la decisione della Commissione tributaria di primo
grado; che non si rilevavano, nei descritti comportamenti dei funzionari del
Fisco, estremi di reati (peraltro non precisati dal ___), trattandosi di una
semplice vicenda di duplicazione di imposta, relativamente alla quale mancava
del tutto la prova che i funzionari la avessero dolosamente posta in essere al
fine di ledere l'appellante; che alla configurabilita' di un danno risarcibile
ostava comunque il fatto che il contribuente, non coltivando il contenzioso
tributario al di la' della decisione della Commissione di secondo grado, aveva
infranto il nesso di causalita' fra l'asserita azione illecita e l'evento
dannoso; che in ordine all'attivazione, da parte della pubblica
amministrazione, del potere di annullamento di ufficio della pretesa
tributaria, non era configurabile un diritto soggettivo del ___; che non era
stata esperita la procedura di rimborso, con possibilita', in caso di diniego,
di ricorso alle Commissioni tributarie.
Contro tale sentenza il ___ ha proposto ricorso per cassazione affidato a
sete motivi. Hanno resistito con controricorso l'Amministrazione finanziaria
ed il Borsa. Quest'ultimo ha anche depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
- Va preliminarmente rilevato che il ricorso risulta notificato anche
all'Intendente di finanza di Roma e al Direttore regionale delle entrate del
Lazio, in carica al momento del ricorso, per entrambi presso l'Avvocatura
generale dello Stato. Se si trattasse di soggetti autonomi, andrebbe
dichiarata la inammissibilita' del ricorso nei loro confronti, postoche' essi
non sono stati parti nei precorsi gradi. E' pero' evidente che essi, evocati
non in proprio ma per la carica e nel domicilio (processuale) proprio della
carica, altro non sono che articolazioni gia' ricomprese nella figura della
Amministrazione delle finanze, soltanto nei confronti della quale il ricorso
e' da considerarsi indirizzato.
Sempre in via preliminare va osservato che il controricorso del ___ e'
inammissibile in quanto la procura e' rilasciata nella copia notificata del
ricorso, il che non consente di desumerne la anteriorita' rispetto alla
notificazione del controricorso. Resta travolta anche la memoria presentata ai
sensi dell'art. 378 c.p.c., mentre e' da considerarsi legittima la
partecipazione del ___ alla discussione orale (art. 370 c.p.c.).
- Vanno anzitutto esaminati i motivi primo, secondo e quinto, che toccano,
in modo piu' o meno diretto, il tema della giurisdizione.
Il primo motivo e' formulato in termini di omessa pronuncia (art.112 c.p.c.),
dolendosi il ricorrente che la Corte di appello abbia mancato di valutare la
domanda sotto il profilo del risarcimento del danno per condotta illecita
della pubblica amministrazione: domanda certamente riconducibile alla
giurisdizione dell'autorita' giudiziaria ordinaria, data la inesistenza in
radice di un obbligo tributario idoneo a giustificare la spettanza della
giurisdizione agli organi del relativo contenzioso.
Con il secondo motivo il ___ deduce violazione e falsa applicazione dell'art.
1 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, ribadendo che il ricorso alle Commissioni
tributarie era estraneo alla presente controversia, avendo questa per oggetto
non la impugnazione dell'iscrizione a ruolo delle imposte, ma il risarcimento
del danno cagionato dall'illecita condotta dei funzionari
dell'Amministrazione.
Con il quinto motivo, poi, viene dedotta violazione e falsa applicazione
degli artt. 37 c.p.c., 2 e 3 d. leg. 546-1992 e 16 d.P.R. 636-1972, nonche'
violazione dell'art. 2699 c.c. Il ricorrente reitera l'assunto della spettanza
della giurisdizione al giudice ordinario, deducendo che la quietanza di
pagamento in applicazione del condono, proveniente dall'Amministrazione
finanziaria, ha carattere di confessione stragiudiziale circa l'estinzione
dell'obbligazione tributaria, e che la pretesa dell'accertamento di tale
estinzione si configura come diritto soggettivo rientrante nella giurisdizione
del giudice ordinario.
Le esposte censure, strettamente connesse e complementari fra loro, sono
esaminabili congiuntamente e vanno disattese perche' infondate, se non
addirittura carenti di interesse. Il ricorrente si duole, infatti, come se la
sentenza impugnata avesse declinato la giurisdizione sulla proposta domanda di
risarcimento del danno per responsabilita' aquiliana, laddove essa (a parte un
cenno finale alla giurisdizione per la domanda di rimborso e altro cenno, su
cui si ritornera' piu' avanti, alla non configurabilita' di un diritto
soggettivo del privato all'annullamento di ufficio dell'atto amministrativo)
pronuncia, in realta', su tale domanda e la rigetta nel merito, escludendo,
nel dedotto illecito aquiliano, tanto il rapporto di causalita' fra azione ed
evento quanto l'elemento psicologico.
- Altri due motivi sono suscettibili di esame congiunto: il terzo ed il
quarto.
Con l'uno il ricorrente deduce vizio di motivazione, lamentando la
illogicita' e contraddittorieta' della sentenza impugnata, ove essa rileva la
mancata produzione, da parte dell'appellante, degli avvisi di accertamento,
della cartella esattoriale e della decisione della Commissione tributaria di
primo grado. In realta', assume il ricorrente, avvisi e cartelle non erano
stati prodotti proprio perche' non correttamente notificati, e ininfluente
sarebbe stata la produzione della decisione della Commissione tributaria,
limitatasi a rilevare la pretesa tardivita' del ricorso. Al contrario, gli
avvisi di accertamento avrebbero dovuto essere prodotti dall'Amministrazione
finanziaria a sostegno dell'affermata legittimita' della propria pretesa e
contraddittoriamente la Corte di appello, dopo aver affermato la rilevanza di
tali atti, non avrebbe valutato ai fini del decidere la mancata produzione di
essi da parte dell'Amministrazione.
Con l'altro motivo (il quarto), deducendo omesso esame di atti versati in
causa e di indicazioni difensive chiaramente formulate, il ricorrente censura
l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui egli avrebbe omesso di
specificare i reati (di cui adombrava la consumazione) e di precisare le prove
del comportamento doloso dei funzionari. In realta' egli aveva indicato i
reati (estorsione, abuso di ufficio, omissione di atti d'ufficio) e, quanto
alla volontarieta' della duplicazione di imposta, essa si desumeva per
tabulas, attraverso la persistente scelta di un errato domicilio per la
notificazione degli atti impositivi (circostanza, quest'ultima, che secondo il
ricorrente sarebbe verificabile e andrebbe verificata da questa stessa Suprema
Corte).
I due motivi in esame sono accomunati dal riferimento (ancorche' non
esplicito) al n. 5 dell'art. 360 c.p.c., concernente la inadeguatezza della
motivazione su punti decisivi. Cio' che difetta, tuttavia, in entrambe le
censure, e' proprio la decisivita' dei punti in questione entro la trama
argomentativa della sentenza impugnata. Infatti, tanto il rilievo che il ___
non ha prodotto gli atti del processo tributario quanto quello secondo cui
egli non avrebbe specificato i reati di cui genericamente parlava, esatti o
non che siano, hanno soltanto la funzione di evidenziare, ad colorandum, una
certa superficialita' nella condotta difensiva del ___, ma non assurgono al
rango di vere e proprie rationes decidendi, riguardo alle quali sia
configurabile un rilevante vizio di motivazione.
Quanto al problema (in se') della ravvisabilita' di figure criminose e
comunque della sussistenza dell'elemento psicologico, si rinvia all'esame dei
restanti motivi del ricorso. In ogni caso e' da escludere che questa Corte
possa, come sostenuto dal ricorrente, procedere all'esame (di fatto) della
erroneita' del luogo in cui furono notificati gli avvisi di accertamento.
- Con il sesto e settimo motivo, anch'essi esaminabili congiuntamente, il
___ deduce violazione degli artt. 629, 328, 323 c.p., e dell'art. 2043 c.c. in
relazione all'art. 97 Cost., nonche', relativamente ad entrambi i profili,
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Il ricorrente sostiene la
configurabilita' dei reati di estorsione, abuso ed omissione di atti di
ufficio, consistente il primo nella minaccia degli atti esecutivi per ottenere
il pagamento di un debito tributario gia' estinto, e gli altri nella mancata
adozione di un provvedimento idoneo ad impedire un sopruso, cio' concretando,
nell'evidenza del gia' avvenuto assolvimento del debito d'imposta, un obbligo
giuridico e non gia', come ritenuto dalla sentenza impugnata, un potere
discrezionale dell'Amministrazione. Il ricorrente contesta altresi'
l'affermazione di tale sentenza, secondo cui il nesso di causalita' fra la
condotta della pubblica amministrazione e l'evento dannoso si sarebbe
interrotto per il comportamento omissivo del contribuente (mancata
impugnazione della decisione della Commissione tributaria di secondo grado).
Infine, con riferimento all'illecito civile di cui all'art. 2043 c.c., rileva
che, come ritenuto da questa Suprema Corte, il privato non deve provare la
colpa dei singoli funzionari e che la colpa della pubblica amministrazione
puo' consistere nella violazione non solo delle regole di comune prudenza, ma
anche di leggi o regolamenti alla cui osservanza essa sia tenuta, nonche' dei
principi di legalita', imparzialita' e buon andamento prescritti dall'art. 97
della Costituzione.
Anche questo ulteriore complesso di censure non resiste all'analisi critica.
Primo punto problematico da risolvere e' quello della interruzione del nesso
di causalita' per effetto della mancata impugnazione della decisione della
Commissione tributaria di secondo grado davanti alla Commissione tributaria
centrale o alla Corte di appello. Al riguardo questa Corte ritiene che la
soluzione offerta dalla impugnata sentenza non possa essere condivisa, pur
restando fermo, attraverso piu' ampia motivazione, il risultato finale
raggiunto (art. 384, secondo comma, c.p.c.). Come gia' altra volta affermato
(sent. 3 dicembre 1983 n. 7237), "in tema di responsabilita' per fatto
illecito il nesso di causalita' fra comportamento antigiuridico ed evento
dannoso cessa in virtu' del sopraggiungere di altro fatto, idoneo da solo a
determinare l'evento, che puo' essere anche del danneggiato e consistere anche
in un comportamento omissivo (nell'ipotesi allora considerata si trattava di
non proposizione di un'azione giudiziaria), sempre, pero', che si ricolleghi
ad un obbligo giuridico di impedire l'evento". Orbene, se tale insegnamento e'
da tener fermo, deve nella specie escludersi che alla mancata impugnazione
della decisione della Commissione tributaria di secondo grado sia attribuibile
un assorbente rilievo causale, capace di efficacia interruttiva del nesso di
causalita' fra l'originaria azione antigiuridica e l'evento, e cio' sia
perche' e' indimostrato che tale comportamento omissivo sia stato da solo
idoneo a determinare il danno (cioe' che il risultato processuale sarebbe
stato diverso se l'impugnazione fosse stata esercitata), sia perche'
l'esercizio del diritto di impugnazione - espressione di non vincolabile
strategia processuale e in definitiva della stessa liberta' della parte nel
processo - non appare comunque riconducibile alla nozione di "obbligo
giuridico" di impedire l'evento dannoso.
A questo punto non puo' peraltro ignorarsi che la mancata impugnazione ha
determinato il formarsi della cosa giudicata nel processo tributario, vale a
dire l'irretrattabile accertamento dell'esistenza dell'obbligo del
contribuente, anche se si fosse verificata, prima del giudicato, una causa
estintiva. Cio' tuttavia non esclude ancora la possibilita' di ipotizzare la
rilevanza aquiliana del comportamento dell'Amministrazione (in questo senso il
ricorrente ha ragione di distinguere insistentemente fra il piano del rapporto
tributario e quello della violazione del principio del neminem laedere), ma
postula una particolare articolazione dell'attivita' illecita. In altre
parole, tale attivita' non potrebbe esaurirsi nella mera richiesta, anche
coattiva, del tributo, perche' cio' troverebbe avallo nel giudicato inter
partes, ma dovrebbe articolarsi in un piu' grave e complesso contesto
operativo che ricomprenda la originaria emissione in mala fede dell'avviso di
accertamento e si estenda all'uso altrettanto in mala fede del processo e del
suo risultato, integrando un vero e proprio programma persecutorio. Una tale
ipotesi (che certamente avrebbe, essa si', rilevanza penale) e' in effetti
ventilata dal ricorrente, ma e' stata ragionatamente esclusa dalla sentenza
impugnata, che nega (o quanto meno dice non provata) urla "preordinazione" al
fine di ledere il ___, con cio' ponendo in essere un giudizio di fatto non
sindacabile in questa sede.
Resta da dire che l'esistenza del giudicato rende del tutto non configurabile
l'illecito sotto il profilo colposo, neppure nel senso ampio che questa Corte
ha elaborato con riferimento alla pubblica amministrazione, richiamando i
principi di imparzialita' e di buon andamento come parametri alla cui stregua
la colpa va verificata (cfr. sentenza 5883-1991). Proprio alla luce di tali
principi, infatti, appare non rimproverabile la richiesta di un tributo il cui
accertamento, anche se per avventura ingiusto, sia divenuto irretrattabile.
La sentenza impugnata non e' infine censurabile per quanto concerne la
esclusione di un dovere giuridico della pubblica amministrazione di ritirare i
propri atti quando essi siano illegittimi. La c.d. autotutela della pubblica
amministrazione costituisce, per pacifica acquisizione dottrinale e
giurisprudenziale, una attivita' discrezionale, in quanto essa implica
l'apprezzamento dell'attuale interesse pubblico alla rimozione dell'atto,
interesse che non si identifica con il mero ristabilimento dell'ordine
giuridico violato (fra molte, Cons. Stato, sez. V, 22 settembre 1993 n. 926;
sez. VI, 19 luglio 1994 n. 1241).
- Infondato in tutti i suoi profili, il ricorso va dunque rigettato. Si
ravvisano tuttavia giusti motivi per la compensazione, fra tutte le parti,
delle spese del giudizio di legittimita'.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese.