Sentenza del 04/10/1996 n. 8685 - Corte di Cassazione - Sezione/Collegio Sezioni unite

Testo

                  SVOLGIMENTO DEL PROCESSO  

Con citazione notificata il 13 e 17 febbraio 1987 l'avv. ___ convenne in
giudizio, innanzi al Tribunale di Roma, l'Amministrazione finanziaria dello
Stato ed ___, in proprio e quale intendente di finanza di Roma all'epoca dei
fatti, lamentando che, dopo che egli aveva definito per condono il proprio
debito tributario per IGE, ricchezza mobile e complementare degli anni
1969-1973, gli era stato invalidamente notificato, presso un domicilio errato,
un nuovo accertamento per i medesimi tributi; che le Commissioni tributarie di
primo e secondo grado avevano respinto i suoi ricorsi; che la condotta dei
pubblici funzionari integrava estremi di reati; che da cio', oltre al danno
della duplicazione del pagamento d'imposta, erano altresi' derivati danni
morali.
L'Amministrazione resistette, mentre il ___ non si costitui'.
Il Tribunale rigetto' la domanda.
Il ___ impugno' la sentenza innanzi alla Corte di appello di Roma, la quale,
con sentenza del 12 luglio 1993, rigetto' il gravame. Osservo' la Corte che il
___, neppure in appello, aveva prodotto gli avvisi di accertamento, la
cartella esattoriale e la decisione della Commissione tributaria di primo
grado; che non si rilevavano, nei descritti comportamenti dei funzionari del
Fisco, estremi di reati (peraltro non precisati dal ___), trattandosi di una
semplice vicenda di duplicazione di imposta, relativamente alla quale mancava
del tutto la prova che i funzionari la avessero dolosamente posta in essere al
fine di ledere l'appellante; che alla configurabilita' di un danno risarcibile
ostava comunque il fatto che il contribuente, non coltivando il contenzioso
tributario al di la' della decisione della Commissione di secondo grado, aveva
infranto il nesso di causalita' fra l'asserita azione illecita e l'evento
dannoso; che in ordine all'attivazione, da parte della pubblica
amministrazione, del potere di annullamento di ufficio della pretesa
tributaria, non era configurabile un diritto soggettivo del ___; che non era
stata esperita la procedura di rimborso, con possibilita', in caso di diniego,
di ricorso alle Commissioni tributarie.
Contro tale sentenza il ___ ha proposto ricorso per cassazione affidato a
sete motivi. Hanno resistito con controricorso l'Amministrazione finanziaria
ed il Borsa. Quest'ultimo ha anche depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Va preliminarmente rilevato che il ricorso risulta notificato anche
    all'Intendente di finanza di Roma e al Direttore regionale delle entrate del
    Lazio, in carica al momento del ricorso, per entrambi presso l'Avvocatura
    generale dello Stato. Se si trattasse di soggetti autonomi, andrebbe
    dichiarata la inammissibilita' del ricorso nei loro confronti, postoche' essi
    non sono stati parti nei precorsi gradi. E' pero' evidente che essi, evocati
    non in proprio ma per la carica e nel domicilio (processuale) proprio della
    carica, altro non sono che articolazioni gia' ricomprese nella figura della
    Amministrazione delle finanze, soltanto nei confronti della quale il ricorso
    e' da considerarsi indirizzato.
    Sempre in via preliminare va osservato che il controricorso del ___ e'
    inammissibile in quanto la procura e' rilasciata nella copia notificata del
    ricorso, il che non consente di desumerne la anteriorita' rispetto alla
    notificazione del controricorso. Resta travolta anche la memoria presentata ai
    sensi dell'art. 378 c.p.c., mentre e' da considerarsi legittima la
    partecipazione del ___ alla discussione orale (art. 370 c.p.c.).
  2. Vanno anzitutto esaminati i motivi primo, secondo e quinto, che toccano,
    in modo piu' o meno diretto, il tema della giurisdizione.
    Il primo motivo e' formulato in termini di omessa pronuncia (art.112 c.p.c.),
    dolendosi il ricorrente che la Corte di appello abbia mancato di valutare la
    domanda sotto il profilo del risarcimento del danno per condotta illecita
    della pubblica amministrazione: domanda certamente riconducibile alla
    giurisdizione dell'autorita' giudiziaria ordinaria, data la inesistenza in
    radice di un obbligo tributario idoneo a giustificare la spettanza della
    giurisdizione agli organi del relativo contenzioso.
    Con il secondo motivo il ___ deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 1 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, ribadendo che il ricorso alle Commissioni
    tributarie era estraneo alla presente controversia, avendo questa per oggetto
    non la impugnazione dell'iscrizione a ruolo delle imposte, ma il risarcimento
    del danno cagionato dall'illecita condotta dei funzionari
    dell'Amministrazione.
    Con il quinto motivo, poi, viene dedotta violazione e falsa applicazione
    degli artt. 37 c.p.c., 2 e 3 d. leg. 546-1992 e 16 d.P.R. 636-1972, nonche'
    violazione dell'art. 2699 c.c. Il ricorrente reitera l'assunto della spettanza
    della giurisdizione al giudice ordinario, deducendo che la quietanza di
    pagamento in applicazione del condono, proveniente dall'Amministrazione
    finanziaria, ha carattere di confessione stragiudiziale circa l'estinzione
    dell'obbligazione tributaria, e che la pretesa dell'accertamento di tale
    estinzione si configura come diritto soggettivo rientrante nella giurisdizione
    del giudice ordinario.
    Le esposte censure, strettamente connesse e complementari fra loro, sono
    esaminabili congiuntamente e vanno disattese perche' infondate, se non
    addirittura carenti di interesse. Il ricorrente si duole, infatti, come se la
    sentenza impugnata avesse declinato la giurisdizione sulla proposta domanda di
    risarcimento del danno per responsabilita' aquiliana, laddove essa (a parte un
    cenno finale alla giurisdizione per la domanda di rimborso e altro cenno, su
    cui si ritornera' piu' avanti, alla non configurabilita' di un diritto
    soggettivo del privato all'annullamento di ufficio dell'atto amministrativo)
    pronuncia, in realta', su tale domanda e la rigetta nel merito, escludendo,
    nel dedotto illecito aquiliano, tanto il rapporto di causalita' fra azione ed
    evento quanto l'elemento psicologico.
  3. Altri due motivi sono suscettibili di esame congiunto: il terzo ed il
    quarto.
    Con l'uno il ricorrente deduce vizio di motivazione, lamentando la
    illogicita' e contraddittorieta' della sentenza impugnata, ove essa rileva la
    mancata produzione, da parte dell'appellante, degli avvisi di accertamento,
    della cartella esattoriale e della decisione della Commissione tributaria di
    primo grado. In realta', assume il ricorrente, avvisi e cartelle non erano
    stati prodotti proprio perche' non correttamente notificati, e ininfluente
    sarebbe stata la produzione della decisione della Commissione tributaria,
    limitatasi a rilevare la pretesa tardivita' del ricorso. Al contrario, gli
    avvisi di accertamento avrebbero dovuto essere prodotti dall'Amministrazione
    finanziaria a sostegno dell'affermata legittimita' della propria pretesa e
    contraddittoriamente la Corte di appello, dopo aver affermato la rilevanza di
    tali atti, non avrebbe valutato ai fini del decidere la mancata produzione di
    essi da parte dell'Amministrazione.
    Con l'altro motivo (il quarto), deducendo omesso esame di atti versati in
    causa e di indicazioni difensive chiaramente formulate, il ricorrente censura
    l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui egli avrebbe omesso di
    specificare i reati (di cui adombrava la consumazione) e di precisare le prove
    del comportamento doloso dei funzionari. In realta' egli aveva indicato i
    reati (estorsione, abuso di ufficio, omissione di atti d'ufficio) e, quanto
    alla volontarieta' della duplicazione di imposta, essa si desumeva per
    tabulas, attraverso la persistente scelta di un errato domicilio per la
    notificazione degli atti impositivi (circostanza, quest'ultima, che secondo il
    ricorrente sarebbe verificabile e andrebbe verificata da questa stessa Suprema
    Corte).
    I due motivi in esame sono accomunati dal riferimento (ancorche' non
    esplicito) al n. 5 dell'art. 360 c.p.c., concernente la inadeguatezza della
    motivazione su punti decisivi. Cio' che difetta, tuttavia, in entrambe le
    censure, e' proprio la decisivita' dei punti in questione entro la trama
    argomentativa della sentenza impugnata. Infatti, tanto il rilievo che il ___
    non ha prodotto gli atti del processo tributario quanto quello secondo cui
    egli non avrebbe specificato i reati di cui genericamente parlava, esatti o
    non che siano, hanno soltanto la funzione di evidenziare, ad colorandum, una
    certa superficialita' nella condotta difensiva del ___, ma non assurgono al
    rango di vere e proprie rationes decidendi, riguardo alle quali sia
    configurabile un rilevante vizio di motivazione.
    Quanto al problema (in se') della ravvisabilita' di figure criminose e
    comunque della sussistenza dell'elemento psicologico, si rinvia all'esame dei
    restanti motivi del ricorso. In ogni caso e' da escludere che questa Corte
    possa, come sostenuto dal ricorrente, procedere all'esame (di fatto) della
    erroneita' del luogo in cui furono notificati gli avvisi di accertamento.
  4. Con il sesto e settimo motivo, anch'essi esaminabili congiuntamente, il
    ___ deduce violazione degli artt. 629, 328, 323 c.p., e dell'art. 2043 c.c. in
    relazione all'art. 97 Cost., nonche', relativamente ad entrambi i profili,
    omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Il ricorrente sostiene la
    configurabilita' dei reati di estorsione, abuso ed omissione di atti di
    ufficio, consistente il primo nella minaccia degli atti esecutivi per ottenere
    il pagamento di un debito tributario gia' estinto, e gli altri nella mancata
    adozione di un provvedimento idoneo ad impedire un sopruso, cio' concretando,
    nell'evidenza del gia' avvenuto assolvimento del debito d'imposta, un obbligo
    giuridico e non gia', come ritenuto dalla sentenza impugnata, un potere
    discrezionale dell'Amministrazione. Il ricorrente contesta altresi'
    l'affermazione di tale sentenza, secondo cui il nesso di causalita' fra la
    condotta della pubblica amministrazione e l'evento dannoso si sarebbe
    interrotto per il comportamento omissivo del contribuente (mancata
    impugnazione della decisione della Commissione tributaria di secondo grado).
    Infine, con riferimento all'illecito civile di cui all'art. 2043 c.c., rileva
    che, come ritenuto da questa Suprema Corte, il privato non deve provare la
    colpa dei singoli funzionari e che la colpa della pubblica amministrazione
    puo' consistere nella violazione non solo delle regole di comune prudenza, ma
    anche di leggi o regolamenti alla cui osservanza essa sia tenuta, nonche' dei
    principi di legalita', imparzialita' e buon andamento prescritti dall'art. 97
    della Costituzione.
    Anche questo ulteriore complesso di censure non resiste all'analisi critica.
    Primo punto problematico da risolvere e' quello della interruzione del nesso
    di causalita' per effetto della mancata impugnazione della decisione della
    Commissione tributaria di secondo grado davanti alla Commissione tributaria
    centrale o alla Corte di appello. Al riguardo questa Corte ritiene che la
    soluzione offerta dalla impugnata sentenza non possa essere condivisa, pur
    restando fermo, attraverso piu' ampia motivazione, il risultato finale
    raggiunto (art. 384, secondo comma, c.p.c.). Come gia' altra volta affermato
    (sent. 3 dicembre 1983 n. 7237), "in tema di responsabilita' per fatto
    illecito il nesso di causalita' fra comportamento antigiuridico ed evento
    dannoso cessa in virtu' del sopraggiungere di altro fatto, idoneo da solo a
    determinare l'evento, che puo' essere anche del danneggiato e consistere anche
    in un comportamento omissivo (nell'ipotesi allora considerata si trattava di
    non proposizione di un'azione giudiziaria), sempre, pero', che si ricolleghi
    ad un obbligo giuridico di impedire l'evento". Orbene, se tale insegnamento e'
    da tener fermo, deve nella specie escludersi che alla mancata impugnazione
    della decisione della Commissione tributaria di secondo grado sia attribuibile
    un assorbente rilievo causale, capace di efficacia interruttiva del nesso di
    causalita' fra l'originaria azione antigiuridica e l'evento, e cio' sia
    perche' e' indimostrato che tale comportamento omissivo sia stato da solo
    idoneo a determinare il danno (cioe' che il risultato processuale sarebbe
    stato diverso se l'impugnazione fosse stata esercitata), sia perche'
    l'esercizio del diritto di impugnazione - espressione di non vincolabile
    strategia processuale e in definitiva della stessa liberta' della parte nel
    processo - non appare comunque riconducibile alla nozione di "obbligo
    giuridico" di impedire l'evento dannoso.
    A questo punto non puo' peraltro ignorarsi che la mancata impugnazione ha
    determinato il formarsi della cosa giudicata nel processo tributario, vale a
    dire l'irretrattabile accertamento dell'esistenza dell'obbligo del
    contribuente, anche se si fosse verificata, prima del giudicato, una causa
    estintiva. Cio' tuttavia non esclude ancora la possibilita' di ipotizzare la
    rilevanza aquiliana del comportamento dell'Amministrazione (in questo senso il
    ricorrente ha ragione di distinguere insistentemente fra il piano del rapporto
    tributario e quello della violazione del principio del neminem laedere), ma
    postula una particolare articolazione dell'attivita' illecita. In altre
    parole, tale attivita' non potrebbe esaurirsi nella mera richiesta, anche
    coattiva, del tributo, perche' cio' troverebbe avallo nel giudicato inter
    partes, ma dovrebbe articolarsi in un piu' grave e complesso contesto
    operativo che ricomprenda la originaria emissione in mala fede dell'avviso di
    accertamento e si estenda all'uso altrettanto in mala fede del processo e del
    suo risultato, integrando un vero e proprio programma persecutorio. Una tale
    ipotesi (che certamente avrebbe, essa si', rilevanza penale) e' in effetti
    ventilata dal ricorrente, ma e' stata ragionatamente esclusa dalla sentenza
    impugnata, che nega (o quanto meno dice non provata) urla "preordinazione" al
    fine di ledere il ___, con cio' ponendo in essere un giudizio di fatto non
    sindacabile in questa sede.
    Resta da dire che l'esistenza del giudicato rende del tutto non configurabile
    l'illecito sotto il profilo colposo, neppure nel senso ampio che questa Corte
    ha elaborato con riferimento alla pubblica amministrazione, richiamando i
    principi di imparzialita' e di buon andamento come parametri alla cui stregua
    la colpa va verificata (cfr. sentenza 5883-1991). Proprio alla luce di tali
    principi, infatti, appare non rimproverabile la richiesta di un tributo il cui
    accertamento, anche se per avventura ingiusto, sia divenuto irretrattabile.
    La sentenza impugnata non e' infine censurabile per quanto concerne la
    esclusione di un dovere giuridico della pubblica amministrazione di ritirare i
    propri atti quando essi siano illegittimi. La c.d. autotutela della pubblica
    amministrazione costituisce, per pacifica acquisizione dottrinale e
    giurisprudenziale, una attivita' discrezionale, in quanto essa implica
    l'apprezzamento dell'attuale interesse pubblico alla rimozione dell'atto,
    interesse che non si identifica con il mero ristabilimento dell'ordine
    giuridico violato (fra molte, Cons. Stato, sez. V, 22 settembre 1993 n. 926;
    sez. VI, 19 luglio 1994 n. 1241).
  5. Infondato in tutti i suoi profili, il ricorso va dunque rigettato. Si
    ravvisano tuttavia giusti motivi per la compensazione, fra tutte le parti,
    delle spese del giudizio di legittimita'.
    P.Q.M.
    La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese.

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