Sentenza del 17/11/2000 n. 14889 - Corte di Cassazione - Sezione/Collegio 5

Testo

Nel corso del 1985 decedeva l'imprenditore edile - A - - G -.
Accettavano l'eredita' il coniuge - B - - I -, rimasta nel possesso dei
beni, e il fratello - A - - Aa -, mentre chiamati alla eredita' erano anche
la sorella del de cuius - A - - L - e due nipoti, tra cui - A - - G -. Nel
1987 moriva anche - B - - I -.
L'ufficio IIDD di Poppi ritenendo che l'eredita' (tra cui anche l'azienda
edile) si fosse devoluta in favore di tutti questi soggetti e che tra tutti
i coeredi si fosse formata una societa' di fatto per la continuazione
dell'impresa, ha emesso per il 1986 un avviso di accertamento a fini Ilor
nei confronti della societa' di fatto "Eredi di - A - - G - di - B - - I -"
per un reddito d'impresa di lire 246.154.000, nonche' avvisi di accertamento
a fini Irpef nei confronti di tutti i pretesi soci.
La Commissione Tributaria Provinciale ha accolto il ricorso, mentre la
Commissione Tributaria Regionale ha accolto l'appello dell'ufficio ed ha
riformato la decisione di primo grado.
Hanno proposto ricorso - A - - L - e - A - - G - deducendo sei motivi di
ricorso.
Il Ministero delle Finanze ha resistito con controricorso per contestare in
radice le doglianze formulate dai ricorrenti.
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto violazione e falsa
applicazione dell'art.65, comma 3 del d.p.r. n.600/73 in relazione all'art.
470 c.p.c. e segg. c.c., nonche' insufficiente, illogica e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia nella parte in cui e'
stata ritenuta nella sentenza impugnata la validita' della dichiarazione dei
redditi relativa alla posizione della defunta - B - - I - (attestante per il
1986 un reddito di impresa per lire 246.000.000) presentata da - A - - Aa -,
estraneo alla eredita' della - B -. In particolare, i ricorrenti hanno
evidenziato che l'intera vicenda e' derivata dalla presentazione di questa
dichiarazione di redditi da parte di un soggetto che non era erede della de
cuius - B - - I -, e che non era legittimato a tanto.
Il Ministero ha contestato questa affermazione rilevando che l'ufficio non
ha fondato l'accertamento sulla dichiarazione resa da - A - - Aa -, posto
che con l'accertamento ha attribuito i redditi ad altro soggetto (la
societa' di fatto costituita tra gli eredi di - A - - G -) e posto che
l'ufficio nell'accertamento ha indicato che per quei redditi non era stata
presentata alcuna dichiarazione.
Ritiene la Corte che la doglianza e' infondata poiche' la validita' della
dichiarazione presentata da - A - - Aa - per - B - - I -, ritenuta ed
affermata erroneamente dalla Commissione Regionale, non costituisce la ratio
decidendi dell'impugnata sentenza e dell'accertamento di cui qui si discute.
E' senz'altro esatto che tale dichiarazione, presentata da un soggetto non
legittimato a tanto, e 'tamquam non esset poiche' non puo' vincolare sul
piano tributario gli eredi di - B - - I -, ma e' altrettanto vero che qui
non si discute della validita' o meno di questo atto: l'accertamento di cui
si discute non ha ad oggetto i redditi prodotti da - B - - I - nel 1986;
ha ad oggetto i redditi prodotti da una societa' di fatto tra coeredi tra
cui anche - B - - I -. In conseguenza di cio', quindi, la risoluzione del
problema della validita' della dichiarazione presentata da - A - - Aa - e'
del tutto ininfluente nella vicenda in esame.
Con il secondo motivo i ricorrenti hanno dedotto violazione e falsa
applicazione degli articoli 112 e 345 c.p.c. per non avere il giudice di
appello esaminato la censura dell'ufficio sulla necessita' di una rinuncia
espressa alla eredita', e per avere invece esaminato di propria iniziativa
il problema di una intervenuta accettazione tacita dell'eredita', ricavata
dalla mancata dimostrazione della estraneita' dei ricorrenti alla conduzione
aziendale.
Con il terzo motivo e' stata dedotta violazione e falsa applicazione degli
articoli 470 e 582 c.c. per non avere la Commissione Regionale fatto la
distinzione tra semplice chiamato alla eredita' ed erede, e per non avere
affermato che il chiamato, fino a che non e' diventato erede, non ha titolo
ne' interesse ad intromettersi nelle vicende ereditarie, salvo il compimento
di atti cautelari.
Con il quarto motivo i ricorrenti hanno dedotto violazione e falsa
applicazione degli articoli 475 e 487, comma 3 c.c., nonche' insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, poiche'
il giudice di appello non avrebbe fatto buon uso della norma che prevede che
chi non e' nel possesso dei beni, se chiede l'inventario e poi non accetta
entro 40 giorni, decade dal diritto di accettare. In particolare hanno
sostenuto non solo di non avere accettato l'eredita' di - A - - G -, ma di
essere decaduti dal diritto di accettare per avere chiesto l'inventario e
per non avere accettato entro i 40 giorni.
Il Ministero a questo proposito ha specificato che l'ufficio non ha inteso
sottoporre a tassazione somme pervenute "iure ereditario", bensi' redditi
conseguenti ad una attivita' svolta dai coeredi in via di fatto, ancorche' a
scopo meramente conservativo di un patrimonio appartenente ad un defunto
alla cui eredita' sono stati chiamati e per sostenere che l'accertamento e'
basato su una legittima presunzione "iuris tantum", in base alla quale si
ritiene che i chiamati alla eredita' di un imprenditore continuino a
svolgere l'attivita' d'impresa, almeno fino alla liquidazione. Piu' in
particolare, ha rilevato che alla morte di un imprenditore individuale e nel
caso di una attivita' imprenditoriale che continua (non essendosi verificata
una cessazione dell'attivita' per effetto dell'esaurimento della fase di
liquidazione), i chiamati all'eredita' devono provvedere, nelle dovute
forme, alla dichiarazione di rinunzia affinche' non nasca, in terzi aventi
diritto, alcuna aspettativa o affidamento, e che per ovvi motivi di,
pubblicita' la dichiarazione di rinuncia va fatta in modo formale (al
contrario della mancata accettazione che puo' essere espressa o tacita) per
non lasciar insicuro il diritto dei terzi estranei.
Ritiene la Corte che le doglianze formulate dai ricorrenti sono infondate e
che sono invece valide le considerazioni formulate dal controricorrente,
dovendosi presumere che l'impresa individuale, se alla morte del titolare
non cessa con una necessaria fase di liquidazione, viene continuata in una
forma di comunione che, in mancanza di atti formali, fa legittimamente
configurare una societa' di fatto tra i chiamati alla eredita', e dovendosi
ritenere di conseguenza, per il principio di affidamento e di necessaria
tutela dei terzi che ogni chiamato che voglia restare estraneo alla
continuazione della impresa deve formulare una rinunzia espressa nelle forme
di legge, non essendo sufficiente il fatto che l'eredita' non sia stata
accettata. Questa presunzione non e' certamente di carattere assoluto, ma e'
"iuris tantum" e ammette la prova del contrario, intesa a dimostrare o che
nessun atto di gestione dell'impresa e' stato compiuto o che gli atti di
gestione sono stati compiuti da alcuni soggetti e non da altri. Nella specie
e' emerso un elemento estremamente significativo quale l'emissione di
fatture per lire 281.538.000 intestate "Eredi di - A - - G -" a riprova di
una sicura continuazione dell'impresa, che richiedeva per la necessaria
tutela dei terzi una rinunzia espressa nelle forme di legge da parte del
chiamato che volesse portare a conoscenza dei terzi la sua estraneita'.
Con il quinto motivo e' stata dedotta violazione e falsa applicazione degli
articoli 460 e 2697 c.c. e comunque dei principi in materia di onere della
prova per avere la Commissione Regionale ritenuto che l'onere di provare
l'estraneita' alla continuazione dell'impresa incombeva sui ricorrenti pur
non avendo costoro acquistato la qualita' di eredi.
Ritiene la Corte che anche questa doglianza e' infondata alla stregua di
quanto e' stato sin qui evidenziato, essendo innegabile che quello del
chiamato e' uno status che comporta la legittimazione attiva ad esperire
azioni cautelari a difesa della eredita', ma anche la legittimazione passiva
in un giudizio come quello che ci occupa, nel momento in cui sussiste una
presunzione di comunione nella gestione della continuazione di una impresa
che faceva capo al de cuius, salvo ovviamente il diritto del chiamato di
provare la propria estraneita' derivante da comportamenti concreti. Si e'
visto che la presunzione di che trattasi e' stata avvalorata e rafforzata
dalla emissione di fatture, sicche' nel concreto l'onere della prova della
estraneita' non poteva che competere ai ricorrenti, giusta quanto ha
ritenuto la Commissione Regionale.
Con il sesto motivo e' stata dedotta violazione e falsa applicazione degli
articoli 24 e 113 della Costituzione in quanto il giudice di appello avrebbe
illegittimamente considerato quale atto di accettazione tacita anche la
resistenza in giudizio, violando cosi' la liberta' di tutela giurisdizionale.
A parere della Corte la doglianza e' infondata poiche' si e' gia' visto come
la responsabilita' dei ricorrenti discende non da una accettazione tacita,
come in parte ha ritenuto la sentenza impugnata soffermandosi anche sul
gravame articolato dai ricorrenti dinanzi al giudice tributario (ed in cio'
la motivazione va corretta), ma discende da una situazione di fatto che si
e', venuta a determinare per effetto della continuazione di una impresa dopo
la morte del suo titolare, da una mancata rinunzia espressa alla eredita'
(che andava fatta a garanzia dei terzi che vedevano l'impresa continuare), e
da una mancata prova di estraneita' alla gestione concreta che superasse
quella presunzione di partecipazione gravante su tutti i chiamati.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.

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