Sentenza del 18/02/2015 n. 3215 - Corte di Cassazione - Sezione/Collegio 5
Svolgimento del processo
1. A seguito di p.v.c. dell'8.3.2006, l'Agenzia delle Entrate di Treviso faceva notificare alla R. s.p.a. un avviso di accertamento a mezzo del quale, recependo le risultanze del p.v.c, contestava alla parte per l'anno 2003 ricavi non contabilizzati derivanti dalla rilevata differenza tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino e le rimanenze registrate, da considerarsi ai sensi del D.P.R. n. 441 del 1997 fonte di presunzione di cessione o di acquisto, la mancata registrazione di interessi attivi e costi indeducibili per spese di consulenza. Rettificava perciò le dichiarazioni di imposta della parte, liquidando i maggiori oneri tributari ed irrogando le corrispondenti sanzioni. Avverso la sentenza di primo grado, favorevole alla contribuente, dispiegava appello l'Agenzia delle Entrate impugnando il deliberato dei primi giudici avanti alla CTR Veneto. I giudici d'appello respingevano il gravame e, confermando la sentenza di primo grado, osservavano, in relazione alle differenze quantitative contestate dall'ufficio, sulla premessa che le disposizione regolamentari di cui al D.P.R. n. 441 del 1997 presuppongono "l'identificazione certa del bene attraverso la descrizione di esso in una documentazione" e che "se l'identificazione certa del bene manchi … manca la certezza sulla quale deve fondarsi la presunzione", che "nel caso in esame il processo di trasformazione delle materie prime acquistate in prodotti finiti impedisce il riscontro della mancanza fisica delle giacenze iniziali, venendo a mancare quella certezza che la legge ritiene di poter acquisire pur nell'inversione dell'onere della prova". D'altro canto, aggiungevano ancora, gli argomenti addotti dall'ufficio a fondamento della legittimità del proprio operato, quantunque "apprezzabili", non infondevano a quanto accertato "il grado di certezza quale si raggiunge in un raffronto fra entità omogenee". La cassazione di detta sentenza è ora chiesta dall'erario sulla base di quattro motivi.
Resiste con controricorso la R..
Motivi della decisione
2.1. Con il primo motivo di ricorso, l'Agenzia ricorrente eccepisce a mente dell'art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 4 error in procedendo in relazione all'art. 112 c.p.c. in quanto la CTR, malgrado ne fosse stata richiesta in sede di appello, ove l'impugnante aveva lamentato che il giudice di primo grado non avesse pronunciato alcuna statuizione in ordine al duplice rilievo della mancata registrazione degli interessi attivi e dei costi indeducibili per spese di consulenza, avrebbe omesso di pronunciare sulle esposte domande dell'Agenzia, "applicando il diverso ed inesistente principio per cui il giudice tributario può pronunciarsi soltanto su alcune domande".
2.2. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.
Come ha ancora di recente ricordato questa Corte, ai fini della deduzione del vizio in questione "\� necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall'altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l'una o l'altra erano state proposte" (15367/14).
Nella specie la prospettazione ricorrente in parte qua è manifestamente carente sotto il secondo profilo evidenziato dal precedente richiamato, risultando il ricorso lacunoso in punto di autosufficienza, posto che, pur allegando la mancata statuizione dei primi giudici in ordine alla mancata contabilizzazione degli interessi attivi e all'eccepita indeducibilità dei costi relativi a oneri di consulenza, l'ufficio ha omesso di riportare nei suoi termini esatti le corrispondenti istanze rivolte ai detti giudicanti, in modo tale da consentire a questa Corte, in ossequio appunto al richiamato principio dell'autosufficienza codificato nell'art. 366 c.p.c. , comma 1, n. 6, di poter prendere conoscenza di essi direttamente dalla lettura del ricorso, limitandosi invero, a quanto si riferisce a pag. 7 del ricorso, a lamentare "che la sentenza i dei primi giudici … omettesse di pronunciarsi sulla ripresa a tassazione degli interessi attivi non contabilizzati e ad eccepire, circa il componente negativo, di aver "legittimamente recuperato a tassazione il costo di Euro 10.000,00 per mancanza del requisito di inerenza con l'attività svolta", a fronte del fatto che oltre alla fattura "non erano stati rinvenuti altri documenti idonei a qualificare il tipo di servizio sottostante la consulenza".
3.1. Il secondo motivo imputa alla sentenza impugnata ai sensi dell'art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3 violazione di legge in relazione al D.P.R. n. 441 del 1997, art. 4 e art. 2709 c.c., in combinato disposto con il D.P.R. n. 441 del 1997, art. 5 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, in ragione del fatto che, malgrado dalle norme citate fosse retraibile il precetto secondo cui le differenze quantitative costituiscono presunzione di cessione o di acquisto contro l'imprenditore per il periodo di imposta oggetto di controllo, la CTR avrebbe "applicato alla fattispecie concreta … il diverso ed inesistente principio di diritto per cui le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino e le consistenze delle rimanenze registrate non sono sufficienti a costituire presunzione di cessione o di acquisto per il periodo di imposta oggetto di controllo, quando l'attività del contribuente consiste nella trasformazione di materie prime in prodotti finiti". Nel dettaglio, ragiona la ricorrente, l'errore compiuto dal giudice di merito "\� consistito nel fatto di ritenere che le differenze quantitative delle rimanenze risultanti dalle scritture contabili inventariali non possono costituire presunzione di acquisto e di cessione, perché il processo di trasformazione delle materie prime impedirebbe di procedere al controllo effettivo di tale fenomeno, che potrebbe essere realizzato solo comparando le giacenze iniziali e le rimanenze di beni omogenei".
3.2. Il motivo è inammissibile per estraneità alla ratio decidendi.
Giova osservare inizialmente che il D.P.R. n. 441 del 1997 - a mezzo del quale il Governo, in attuazione dell'autorizzazione conferitagli dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 137, lett. a), ha provveduto a ridisciplinare la materia delle presunzioni di acquisto e di cessione, a suo tempo regolata del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53 in base al presupposto che si presumono cedute in evasione di imposta o acquistate senza procedere alla loro registrazione i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano (art. 1) ovvero che non si rinvengono nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni (art. 3) - all'art. 4, sotto la rubrica "Operatività delle presunzioni" prevede, al comma 1, che "gli effetti delle presunzioni di cessione e di acquisto, conseguenti alla rilevazione fisica dei beni, operano al momento dell'inizio degli accessi, ispezioni e verifiche" e al comma 2, che "e eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 14, comma 1, lett. d o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d'imposta oggetto del controllo". Come si è meglio chiarito, il meccanismo delineato dalla norma ai fini dell'operatività delle presunzioni di cui ai precedenti artt. 1 e 3, contempla una duplice modalità: la prima, fondata sulla verifica fisica del magazzino che trova previsione nel comma 1, ove si menziona per l'appunto "la rilevazione fisica dei beni", a cui procedono gli accertatori in occasione di accessi, ispezioni e verifiche condotte presso i locali aziendali e presso gli altri luoghi indicati dall'art. 1; la seconda, che fa leva sulla discrepanza tra scritture obbligatorie di magazzino - quelle appunto previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, comma 1, - o documentazione obbligatoria di acquisto o di cessione e la consistenza delle rimanenze registrate - ipotesi dalla quale va distinta, in ragione del diverso apporto soggettivo della parte, che provvede spontaneamente a far constare documentalmente le differenze quantitative, quella delle differenze inventariali - e si configura in guisa di un controllo cartolare, prescindendo da una verifica fisica delle giacenze effettivamente esistenti.
Ora, applicando queste disposizioni, la CTR ha ricusato la pretesa dell'ufficio sul rilievo che "nel caso in esame il processo di trasformazione delle materie prime acquistate in prodotti finiti impedisce il riscontro della mancanza fisica delle giacenze iniziali, venendo a mancare quella certezza che la legge ritiene di poter acquisire pur nell'inversione dell'onere della prova". E, pur riconoscendo meritevoli di apprezzamento le operazioni condotte dall'ufficio "per superare lo scoglio di un raffronto fra entità diverse", ha ritenuto in conclusione di dovere affermare che nella specie non si potesse negare "il fatto che tali operazioni non possono raggiungere il grado di certezza quale si raggiunge in un raffronto tra entità omogenee". Nel ragionare in questi termini - e nell'escludere quindi la concludenza di un raffronto che non abbia ad oggetto "entità omogenee" - i giudici di appello, considerando altresì che nella specie il processo di trasformazione delle materie prime acquistate impedisce "il riscontro della mancanza fisica delle giacenze iniziali", hanno mostrato perciò di credere che la presunzione di cessione possa operare solo se la differenza quantitativa tra giacenze iniziali e rimanenze finali sia riscontrabile fisicamente. E' evidente il tributo concettuale pagato in tal modo all'art. 4, comma 1 giacché è solo in relazione alle modalità operative della presunzione di cessione delineate dal comma 1 che può ascriversi rilevanza, sia pure sotto il pretesto della loro trasformazione a seguito del processo produttivo, al fatto che la mancanza fisica delle giacenze iniziali precluda, come afferma il giudice di appello, "quella certezza che la legge ritiene di poter acquisire pur nell'inversione dell'onere della prova". Dunque, il ragionamento che porta il giudice d'appello a sposare la conclusione che nella specie la presunzione di cessione non sia operante - e, dunque, la ratio decidendi che suffraga sul punto la decisione impugnata - è tutto interno a questo orizzonte dispositivo, nessun riferimento cogliendosi infatti in esso all'altra modalità con cui la presunzione può venire a determinarsi a mente dell'art. 4, comma 2 attraverso, come si è visto, il raffronto tra le scritture ausiliare di magazzino o la documentazione obbligatoria emessa o ricevuta e le rimanenze registrate.
La censura che la ricorrente muove a mezzo del motivo in disamina, lamentando che la CTR avrebbe ritenuto che "le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino e le consistenze delle rimanenze registrate non siano sufficienti a costituire presunzione di cessione o di acquisto per il periodo di imposta oggetto di controllo", investe la decisione, invece, sotto il diverso profilo della sua aderenza all'art. 4, comma 2 ovvero dell'esatta identificazione della norma giuridica applicata al caso di specie - che risulterebbe appunto violata in quanto i giudici di appello non avrebbero riconosciuto che la presunzione possa operare anche in presenza di differenze quantitative apprezzabili solo cartolarmente - ma in tal modo non ne intercetta la ratio decidendi, poiché il ragionamento della CTR scorre sul diverso binario argomentativo che la disomogeneità dei beni impedisce qualsiasi riscontro fisico tra rimanenze iniziali e rimanenze finali e preclude perciò alla presunzione di cessione di divenire operante.
4.1. Con il terzo motivo si denuncia ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, vizio di motivazione sotto il profilo nella specie della contraddittorietà di quella adottata dalla CTR per respingere il gravame in punto di differenze quantitative, avendo i giudici d'appello dapprima affermato che "la prova documentale fornisce adeguata certezza delle giacenze di magazzino" e poi ritenuto che "ciò non valga nel caso concreto perché la società trasforma le materie prime in prodotti finiti".
4.2. Il motivo è privo di fondamento.
Come è noto "il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l'individuazione della ratio decidendi, e cioè l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione adottata" (14024/14; 10879/14; 10341/14). Esso presuppone cioè un contrasto di argomentazioni tra loro logicamente inconciliabili, tale che non risulti possibile, attraverso la lettura del compendio motivazionale, ricostruire in modo lineare e coerente il percorso razionale seguito dal giudice per addivenire alla decisione secondo uno schema procedimentale che, non lasciando vuoti o operando impropri salti logici, eviti pure, nella sequenza dialettica del discorso decisionale, e quindi anche nel confronto con argomenti di opposto segno, di giustapporre enunciati che, pur influendo in pari grado nella formazione delle ragioni della decisione, al vaglio critico mostrano tuttavia di elidersi vicendevolmente. Nulla di tutto ciò affetta la decisione impugnata, atteso che, se più in generale l'itinerario logico-argomentativo che essa mostra di percorrere per pervenire alla soluzione adottata si sviluppa in maniera del tutto coerente rispetto alla premessa che, non avendo ad oggetto un raffronto tra "entità omogenee", la presunzione di cessione invocata dall'ufficio non è provvista di "quella certezza che la legge ritiene di poter acquisire pur nell'inversione dell'onere della prova", le affermazioni denunciate sotto il profilo della loro conciliabilità concettuale non risultano entrambe in rapporto di necessaria conferenza con il detto percorso decisionale, in modo tale che l'univocità del ragionamento decisorio possa apparire discutibile, dal momento che la prima ("la prova documentale fornisce adeguata certezza delle giacenze di magazzino") è espressione di un enunciato di carattere generale che non ha nessuna valenza decisionale - onde essa è perciò estranea al complessivo discorso svolto dalla decisione -, la seconda ("ciò non valga nel caso concreto perché la società trasforma le materie prime in prodotti finiti") concreta un giudizio di specie, che affonda le sue radici giustificative nella valutazione del caso all'esame del giudicante ed è, per il resto, perfettamente aderente alla decisione di esso adottata da quel giudice.
5.1. Vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, nella specie sotto il profilo della sua insufficienza, si lamenta con il quarto motivo di ricorso, posto che esprimendosi nei riferiti termini quanto all'operato dell'ufficio, "non solo il giudice d'appello non ha indicato quali siano i dati di fatto che ritiene irrilevanti a fini probatori (richiamandoli genericamente come argomentazioni dell'ufficio), ma non manifesta neanche quale sia stata la sua attività intellettuale elaborativa di tali dati che ha condotto al giudizio espresso".
5.2. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.
Questa Corte ha reiteratamente sancito che "il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un'istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative" (17915/10; 20060/14; 11374/12). Nella specie l'Agenzia ricorrente, pur dolendosi del fatto che il giudice d'appello ha omesso di indicare quali elementi probatori addotti dall'ufficio siano risultati inconferenti ai fini del decidere e del fatto che nessuna motivazione riguardo ad essi e dell'affermata loro inconferenza sia stata dal medesimo offerta, è venuta meno all'onere commissionatogli a pena di inammissibilità del ricorso dall'art. 366 c.p.c. , comma 1, n. 6 - che come detto codifica il principio di autosufficienza - non avendo provveduto ad indicare nè tantomeno a trascrivere gli elementi decisionali che in guisa di argomenti di prova sarebbero stati sottoposti al giudice di appello, sicché la lagnanza sul punto, racchiusa nello specifico motivo di ricorso in esame, va conseguentemente dichiarata inammissibile.
6. Il ricorso agenziale va dunque conclusivamente respinto e le spese si regolano di conseguenza.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida nella somma di Euro 3700,00.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 16 dicembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2015
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