Sentenza del 13/02/1998 n. 1512 - Corte di Cassazione - Sezione/Collegio Sezioni unite

Testo

                  SVOLGIMENTO DEL PROCESSO  

Con delibera  del  7  febbraio 1995, il consiglio direttivo dell'Ordine dei  

Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Firenze respingeva la domanda di
iscrizione all'albo degli odontoiatri del dottor ==== =========,
immatricolato al corso di laurea in medicina e chirurgia nell'anno
accademico 1983-1984, laureato nel 1990 ed abilitato all'esercizio della
professione, perche' presentata oltre il termine del 31 dicembre 1991
fissato dalla legge 31 ottobre 1988 n. 471.
Il dottor ========= impugnava la suindicata delibera con ricorso alla
Commissione Centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, sostenendo
che la disposizione della legge, che fissava il suddetto termine, doveva
essere interpretata alla luce della sentenza della Corte Costituzionale 9
marzo 1989 n. 100, dichiarativa della illegittimita' costituzionale degli
artt. 4, 5 e 20 della legge 24 luglio 1985 n. 409.
Con decisione del 11 ottobre 1995, depositata il 12 dicembre 1995, la
Commissione Centrale rigettava il ricorso.
Contro tale decisione il dottor ========= ha proposto ricorso per
cassazione con unico motivo, cui soltanto il Ministero della Sanita' resiste
con controricorso.

                    MOTIVI DELLA DECISIONE  

Con l'unico  motivo,  il  ricorrente  denuncia violazione degli artt. 3 e 4  

della l. 24 luglio 1985 n. 409, violazione e falsa applicazione dei principi
in materia di rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario,
nonche' motivazione insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo
della controversia e si duole che la Commissione abbia rigettato la sua
domanda di iscrizione all'albo degli odontoiatri.
Il ricorrente deduce quanto segue.
Gli artt. 4 e 20 della l. 409/95 cit., nel loro testo originario,
consentiva l'iscrizione all'albo degli odontoiatri oltre che ai laureati in
odontoiatria ed ai laureati in medicina e chirurgia con specializzazione in
odontoiatria, anche ai laureati in medicina e chirurgia iscritti al relativo
corso di laurea anteriormente al 28 gennaio 1980 purche' entro cinque anni
dall'entrata in vigore della stessa legge avessero optato per l'iscrizione
nell'albo degli odontoiatri.
La legge 31 ottobre 1988 n. 471 estese la facolta' di iscriversi all'albo
degli odontoiatri anche ai medici immatricolati al corso di laurea negli
anni accademici dal 1980/81 al 1984/85 e prorogo' il termine per l'opzione
al 31 dicembre 1991.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 9 marzo 1989 n. 100, dichiaro'
l'illegittimita' costituzionale degli artt. 4, 5 e 20 l. 24 luglio 1985 n. 409 nella parte in cui non prevedevano che i soggetti indicati nell'art. 20,
1 comma, ottenuta l'iscrizione nell'albo degli odontoiatri, potessero
contemporaneamente mantenere l'iscrizione all'albo dei medici chirurghi
cosi' come previsto per i soggetti indicati nell'art. 5, e nella parte in
cui prevedevano che i medesimi potessero "optare" nel termine di cinque anni
per l'iscrizione all'albo degli odontoiatri, anziche' "chiedere" senza
limiti di tempo tale iscrizione.
Sulla base di tali premesse, il ricorrente afferma che, essendo venuta
meno per effetto della pronuncia di illegittimita' costituzionale la
necessita' di optare per l'iscrizione all'albo degli odontoiatri, rispetto a
quella nell'albo dei medici, ed essendo stato esteso dalla l. 471/88 cit. il
diritto all'iscrizione all'albo degli odontoiatri anche agli iscritti ai
corsi di laurea dal 1980/81 al 1984/85, egli ha diritto alla iscrizione
richiesta. Una diversa interpretazione darebbe luogo alla illegittimita'
costituzionale della citata l. 471/88.
Il ricorrente critica inoltre la decisione impugnata per aver ritenuto
che la l. 471/88 non puo' essere applicata perche' in contrasto con le
direttive del Consiglio della Comunita' Europea 686 e 687/78 come e' stato
affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunita' Europee, con la sentenza
1 gennaio 1995 in causa C-40/93.
A tal proposito, il ricorrente sostiene che la l. 471/88 fu emanata per
ovviare a disparita' di trattamento che si sarebbero verificate qualora il
diritto di iscriversi all'albo degli odontoiatri non fosse stato
riconosciuto anche a coloro che si erano iscritti al corso di laurea in
medicina prima dell'entrata in vigore della l. 409/85.
L'applicazione del diritto amministrativo darebbe luogo, secondo il
ricorrente, alla violazione dell'art. 3 della Costituzione, comportando un
trattamento diverso a situazioni sostanzialmente analoghe.
La prevalenza del diritto comunitario su quello interno non si estende
fino ai principi fondamentali dell'ordinamento statale, quali sono quelli
consacrati negli artt. 3 e 4 della Costituzione.
Il ricorso e' infondato per le considerazioni che seguono; la risoluzione
delle questioni con esso proposte comporta, anzitutto, l'esposizione del
complesso quadro normativo nel suo svolgimento cronologico, costituito dalle
norme statali, nel testo risultante dagli interventi della Corte
Costituzionale, e dalla disciplina comunitaria comprensiva delle pronunce
della Corte di Giustizia.
I) Ai sensi del R.D.L. 16 ottobre 1924 n. 1755, convertito nella l. 21 marzo 1926 n. 597, l'esercizio della professione di dentista o odontoiatra
sostituiva una delle possibili manifestazioni dell'attivita' medica,
riservata ai laureati in medicina, iscritti al relativo albo.
Il d.P.R. 28 febbraio 1980 n. 135 si limito' a istituire il corso di
laurea in odontoiatria e protesi dentaria presso la facolta' di medicina.
II) Il 25 luglio 1978, il consiglio delle comunita' europee emise due
direttive, la n. 686 concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi,
certificati ed altri titoli di dentista e comportante misure destinate ad
agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera
prestazione dei servizi (direttiva sul riconoscimento) e la n. 687
concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari
ed amministrative per le attivita' di dentista (direttiva sul coordinamento).
Per quanto qui interessa: a) l'art. 1, n. 1 della direttiva sul
coordinamento subordina l'accesso all'attivita' di dentista al possesso di
un diploma, certificato o altro titolo previsto dall'art. 3 della stessa
direttiva, comprovante che l'interessato ha acquisito, nel corso dell'intero
ciclo di formazione, le cognizioni e l'esperienza adeguate prescritte dalla
direttiva sul coordinamento; b) l'art. 7 n. 1 della direttiva sul
riconoscimento prescrive: "ogni Stato membro, riconosce come prova
sufficiente per i cittadini degli Stati membri, i cui diplomi, certificati
ed altri titoli non rispondono all'insieme delle esigenze minime di
formazione previste dall'art. 1 della direttiva sul coordinamento, i
diplomi, i certificati e gli altri titoli di dentista rilasciati da tali
Stati membri prima dell'applicazione della direttiva (sul coordinamento)
insieme ad un attestato che certifichi che questi cittadini si sono
effettivamente e lecitamente dedicati all'attivita' in causa per un periodo
di almeno tre anni consecutivi nel corso dei cinque anni che precedono il
rilascio dell'attestato"; c) a norma dell'art. 24, n. 1, della direttiva sul
riconoscimento e dell'art. 8, n. 1 della direttiva sul coordinamento, il
termine per la trasposizione di entrambe le direttive nel diritto interno
dei singoli Stati membri scadeva diciotto mesi dopo la loro notificazione,
vale a dire il 28 gennaio 1980; d) per l'Italia, il cui ordinamento non
prevedeva alcuna autonomia della categoria dei dentisti, trattandosi di
attivita' che poteva essere svolta da tutti i medici, e che doveva quindi
istituire e disciplinare una nuova categoria professionale, il termine per
l'adeguamento de diritto interno al diritto comunitario fu fissato al 28
luglio 1984 (sei anno dopo la notifica della direttiva); e) l'art. 19 della
direttiva sul riconoscimento prevede che "dal momento in cui l'Italia
prendera' le misure necessarie per conformarsi alla presente direttiva, gli
Stati membri riconosceranno…i diplomi, certificati ed altri titoli di
medico rilasciati in Italia a persone che hanno iniziato la loro formazione
universitaria di medico al piu' tardi dopo diciotto mesi dalla notifica
della presente direttiva (vale a dire entro il 28 gennaio 1980), insieme ad
un attestato, rilasciato dalle competenti autorita' italiane, che certifichi
che queste persone si sono effettivamente e lecitamente dedicate in Italia a
titolo principale alle attivita' di prevenzione, diagnosi e cura dei
denti…per un periodo di almeno tre anni consecutivi nel corso dei cinque
anni che precedono il rilascio dell'attestato e che tali persone sono
autorizzate ad esercitare dette attivita' alle medesime condizioni dei
titolari del diploma di dentista rilasciato in Italia…".
III) La legge 24 luglio 1985 n. 409, per adeguare l'ordinamento
nazionale al diritto comunitario, istitui' la categoria professionale degli
odontoiatri ed il relativo albo, al quale hanno diritto di essere iscritti i
laureati in odontoiatria ed i laureati in medicina con specializzazione in
odontoiatria (art. 1 e 4, I e II comma della legge). E' prevista
l'incompatibilita' tra l'iscrizione all'albo degli odontoiatri e
l'iscrizione ad ogni altro albo professionale (art. 4, III comma), ma i
medici con specializzazione in odontoiatria possono essere iscritti all'albo
dei medici-chirurghi, con apposita annotazione riguardante la specifica
specializzazione, conservando il diritto all'esercizio della professione di
odontoiatria (art. 5).
Con norme transitorie - (artt. 19 e 20) - si stabili' che, nella prima
applicazione della legge, i laureati in medicina e chirurgia iscritti al
relativo corso di laurea anteriormente al 28 gennaio 1980, abilitati
all'esercizio professionale, avevano facolta' di optare per l'iscrizione
all'albo degli odontoiatri e che tale facolta' andava esercitata entro
cinque anni dall'entrata in vigore della legge. In applicazione della
direttiva comunitaria 78/686, il Ministero della Sanita', previ gli
opportuni accertamenti, avrebbe rilasciato a coloro che avevano iniziato in
Italia la loro formazione di medico anteriormente al 28 gennaio 1980
l'attestato che essi si erano effettivamente e lecitamente dedicati nel
nostro Paese, a titolo principale, all'attivita' professionale di
odontoiatria per un periodo di almeno tre anni consecutivi negli ultimi
cinque anni precedenti il rilascio dell'attestato ed erano, pertanto,
autorizzati ad esercitare la predetta attivita' alle stesse condizioni dei
titolari dei diplomi (laurea in odontoiatria, laurea in medicina con
specializzazione in odontoiatria, diploma di abilitazione all'esercizio
professionale).
IV) La legge 31 ottobre 1988 n. 471 estese ai laureati in medicina e
chirurgia immatricolati al relativo corso di laurea negli anni accademici
dal 1980/81 al 1984/85, abilitati all'esercizio professionale, la facolta'
di optare per l'iscrizione all'albo degli odontoiatri, e fisso' al 31
dicembre 1991 il termine per l'esercizio di tale opzione.
V) La Corte Costituzionale, con la sentenza 9 marzo 1989 n. 100,
dichiaro' l'illegittimita' costituzionale degli artt. 4, 5 e 20 l. 24 luglio 1985 n. 409 nella parte in cui non prevedevano che i soggetti indicati
nell'art. 20, comma I, ottenuta l'iscrizione all'albo degli odontoiatri
potessero contemporaneamente mantenere l'iscrizione all'albo dei medici
chirurghi cosi' come previsto per i soggetti indicati nell'art. 5, e nella
parte in cui prevedevano che i medesimi potessero "optare" nel termine di
cinque anni per l'iscrizione all'albo degli odontoiatri, anziche' "chiedere"
senza limite di tempo tale iscrizione.
Con le ordinanze 16 giugno 1994 n. 244 e 13 febbraio 1995 n. 38, la Corte
Costituzionale ha dichiarato inammissibili, per difetto di motivazione sulla
rilevanza, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. unico della l. 31 ottobre 1988 n. 471, sollevate con riferimento all'art. 3 della
Costituzione.
VI) La Corte di Giustizia delle Comunita' Europee, con la sentenza 1
giugno 1995 in causa C-40/93, ha dichiarato che "prorogando, con l. 31 ottobre 1988 n. 471, fino all'anno accademico 1984/85, nei confronti dei
laureati in medicina e chirurgia, il termine stabilito dall'art. 19 della direttiva del consiglio 25 luglio 1978 n. 78/686/CEE, la Repubblica Italiana
e' venuto meno agli obblighi che le incombono ai sensi del detto articolo e
dell'art. 1 della direttiva del consiglio 25 luglio 1978n. 78/687/CEE,
concernete il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative per le attivita' di dentista".
Tale complesso lato sensu normativo, deve essere interpretato ed
applicato alla stregua dei seguenti principi, che l'elaborazione dottrinale
e giurisprudenziale, quest'ultima soprattutto della Corte Costituzionale, ha
enucleato in tema di rapporti tra norme statali e norme comunitarie e dei
compiti riguardo a tali rapporti spettanti alla stessa Corte Costituzionale,
alla Corte di Giustizia delle Comunita' Europee - CGCEE - ed ai giudici
ordinari.
A) L'ordinamento statale e quello comunitario sono distinti ed al tempo
stesso coordinati secondo la ripartizione di competenze stabilita dai
trattati istitutivi delle comunita', ora Unione Europea (v. Corte Cost. 8
giugno 1984 n. 170; Corte Cost. 11 luglio 1989 n. 389; Corte Cost. 18 aprile
1991 n. 168).
B) Nelle materie in cui sono competenti gli organi della Comunita', le
norme comunitarie prevalgono su quelle statali.
Il fondamento della diretta applicazione del diritto comunitario in
Italia si rinviene essenzialmente - anche se, secondo alcuni, che richiamano
anche l'art. 10, non esclusivamente - nell'art. 11 della Costituzione, la
cui seconda parte stabilisce che l'Italia "consente, in condizioni di
parita' con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranita' necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo" (v., oltre
quelle gia' citate, Corte Cost. 27 dicembre 1973 n. 183).
C) Il contrasto tra norme statali e disciplina comunitaria non da'
luogo all'invalidita' o alla illegittimita' delle prime, ma comporta la loro
disapplicazione o meglio, sotto un profilo prettamente terminologico, alla
loro "non applicazione", potendo richiamare il vocabolo "disapplicazione",
per il suo significato tecnico nel nostro ordinamento, aspetti, inesistenti,
di illegittimita' dell'atto (v. Corte Cost. 168/91 cit.).
A tale orientamento la Corte e' pervenuta abbandonando quello originario
secondo il quale le norme comunitarie abrogavano le norme statali
incompatibili preesistenti e potevano determinare l'illegittimita'
costituzionale di quelle sopravvenute per violazione dell'art. 11 Cost. (v.
Corte Cost. 232/75 e 163/77).
Secondo l'orientamento piu' recente, l'effetto connesso alla vigenza
della norma comunitaria "e' percio' quello, non gia' di caducare,
nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensi'
di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della
controversia innanzi al giudice nazionale" (v. Corte Cost. 170/84 cit., v.
anche Cass. 21 marzo 1994 n. 2659; Cass. 3 febbraio 1995 n. 1271).
D) L'interpretazione del diritto comunitario, con efficacia vincolante
per tutte le autorita' (giurisdizionali o amministrative) degli Stati
membri, anche ultra partes compete alla Corte di Lussemburgo.
"Poiche' ai sensi dell'art. 164 del Trattato spetta alla Corte di
giustizia assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e
nell'applicazione del medesimo trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi
sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente
carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la
Corte di Giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne
precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal
via, ne determina, in definitiva, l'ampiezza e il contenuto delle
possibilita' applicative".
Ed in precedenza era stato affermato che "esigenze fondamentali di
eguaglianza e di certezza giuridica postulano che le norme comunitarie - non
qualificabili come fonte di diritto internazionale, ne' di diritto
straniero, ne' di diritto interno dei singoli Stati - debbano avere piena
efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri,
senza la necessita' di leggi di recezione e adattamento, come atti aventi
forza e valore di legge in ogni Paese della Comunita', si' da entrare
ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione uguale ed
uniforme nei confronti di tutti i destinatari" (v. Corte Cost. 183/73
richiamata da Corte Cost. 170/84).
E' alla stregua dei principi appena ricordati che si attribuisce alle
sentenze della Corte di Giustizia il valore di ulteriore fonte del diritto
comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensi'
in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con
efficacia erga omnes nell'ambito della Comunita'.
Tale efficacia va riconosciuta a tutte le sentenze della Corte di
Giustizia, sia pregiudiziali ai sensi dell'art. 177 del Trattato (Corte
Cost. 113/85), sia che siano emesse in sede contenziosa ai sensi dell'art.
169 dello stesso Trattato (Corte Cost. 389/89, come la precedente richiamate
da Corte Cost. 168/91).
Tutto cio' premesso, dalla sentenza della Corte CEE 1 giugno 1995 cit.
derivano alcune conseguenze determinanti ai fini della risoluzione della
presente controversia.
La Corte, con l'affermazione che la Repubblica italiana, "prorogando, con
la l. 31 ottobre 1988 n. 471, fino all'anno accademico 1984/85, nei
confronti dei laureati in medicina e chirurgia, il termine stabilito
dall'art. 19 della direttiva sul riconoscimento, e' venuta meno agli
obblighi ad essa incombenti ai sensi del detto articolo e dell'art. 1 della
direttiva sul coordinamento", ha fissato il presupposto per la
inapplicabilita' da parte di qualsiasi autorita', amministrativa o
giurisdizionale, italiana delle norme della l. 471/88 cit..
La declaratoria dell'inadempimento, da parte di uno Stato membro, degli
obblighi comunitari ad esso imposti implica, sia per le autorita'
giudiziarie sia per quelle amministrative del medesimo Stato membro, il
divieto assoluto di applicare il regime legale interno dichiarato
incompatibile con la disciplina comunitaria (Corte di Giustizia della
Comunita' Europee 19 gennaio 1993 causa C-101/91).
L'Italia, secondo la Corte di Giustizia, ha illegittimamente creato una
categoria di dentisti (quella dei laureati in medicina iscritti al corso di
laurea successivamente al 28 gennaio 1980) non consentita dalle disposizioni
delle citate direttive del 1978.
E' opportuno soggiungere che non esiste alcuna interferenza tra la
sentenza della Corte di Giustizia e la sentenza n. 100 del 1989 della Corte
Costituzionale. Infatti, mentre quest'ultima ha riguardo alla disparita' di
trattamento tra i laureati in medicina, indipendentemente dalla data di
inizio della loro formazione professionale, ed i laureati in odontoiatria,
rispetto alla possibilita' di iscrizione nei due albi, dei medici e degli
odontoiatri, la prima concerne, come si e' detto, i laureati in medicina
iscritti al corso di laurea successivamente al 28 gennaio 1980. La sentenza
della Corte Costituzionale non si e' soffermata, ne' lo avrebbe potuto,
sulla l. 471/88, sulla quale ha, invece, pronunciato la CGCEE.
Di quanto detto sembra essere consapevole lo stesso ricorrente, il quale
pero' sostiene che dall'inapplicabilita' della l. 471/88 e dalla conseguente
applicazione della disciplina comunitaria deriva una disparita' di
trattamento tra i medici iscritti prima dell'anno accademico 1980/81 e
quelli iscritti successivamente fino all'anno 1984/85, con conseguente
violazione dell'art. 3 della Costituzione e dell'art. 4, sotto il profilo
della limitazione del diritto del lavoro. Egli sollecita, quindi, la
rimessione della questione al giudice delle leggi.
La istanza del ricorrente non puo' essere accolta.
Dai principi sopraesposti consegue che non puo' essere rimessa alla Corte
Costituzionale la questione di legittimita' costituzionale di singole norme
comunitarie attesto che l'art. 134 Cost. riguarda soltanto il controllo di
costituzionalita' nei confronti delle leggi e degli atti aventi forza di
legge dello Stato e delle regioni e tali non sono le norme comunitarie
(Corte Cost. 27 dicembre 1973 n. 183; Corte Cost. 8 giugno 1984 n. 170,
nonche' Corte Cost. 16 giugno 1994 ord. n. 244; Corte Cost. 13 febbraio 1995
n. 38).
Secondo la Corte Costituzionale la questione che potrebbe esserle
sottoposta e' quella della legittimita' della legge di esecuzione del
Trattato qualora dalla sua applicazione dovesse derivare la violazione dei
principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o dei diritti
inalienabili della persona umana (v. Corte Cost. 183/73 cit. e piu' in
particolare Corte Cost. 21 aprile 1989 n. 232).
Cio' significa che - quando venga sollevata la questione dell'asserito
contrasto fra una norma comunitaria ed i principi fondamentali della
Costituzione italiana - la valutazione della non manifesta infondatezza
della questione deve essere fatta nel senso di valutare se tale contrasto
raggiunga quella soglia cosi' macroscopica da far pensare che e' il Trattato
nel suo complesso a porsi in conflitto con la Costituzione italiana e da
giustificare il ricorso allo strumento radicale e dirompente dell'uscita
dell'Italia dall'Unione Europea.
Nel caso in esame, lo scrutinio sulla non manifesta infondatezza della
questione, condotto nella suindicata prospettiva, porta alla risposta
negativa.
Poiche' l'art. 3 della Costituzione enuncia un principio fondamentale
dell'ordinamento, il problema che si pone consiste nello stabilire se la
norma di esecuzione del Trattato in quanto impone l'applicazione immediata e
diretta di norme comunitarie da parte di organi dello Stato e, nel caso in
esame, delle norme comunitarie costituite dalle direttive n. 686 e 687 del
1978 e della sentenza della Corte Cee 1 giugno 1995 cit. non determini
sospetti di violazione del principio di eguaglianza.
Al quesito deve rispondersi negativamente.
Le citate direttive CEE, nello stabilire le regole per la
omogeneizzazione, negli Stati membri, del titolo di dentista e per il
correlativo esercizio del diritto di stabilimento nell'ambito della
Comunita', hanno tenuto conto della situazione in cui versava l'Italia -
stato in cui la suindicata professione, non fondata su titoli specifici, non
aveva alcuna autonomia - e hanno dettato una disciplina idonea ad attuare il
trapasso tra le vecchia e la nuova regolamentazione. In linea di principio,
qualora sia in questione il passaggio ad un nuovo regime legale, non urta
contro il principio di eguaglianza fissare i limiti temporali, purche' non
irragionevoli, ai fatti ritenuti rilevanti (v., tra le molte, Corte
Costituzionale 22 giugno 1971 n. 132; 16 luglio 1973 n. 128; 9 giugno 1977
n. 113; 9 giugno 1986 n. 134; 31 dicembre 1986 n. 301; 30 giugno 1988 n.
733).
Nel caso specifico, e' decisivo il rilievo che le direttive, pur
accordando all'Italia un particolare termine per la creazione degli
strumenti idonei ad attuare il coordinamento con gli altri Stati membri,
hanno stabilito che, in presenza degli altri requisiti di cui si e' detto,
potessero ottenere l'iscrizione nell'albo degli odontoiatri i medici che
avessero iniziato la loro formazione professionale prima del 28 gennaio 1980
e, quindi, anteriormente all'anno accademico 1980/81.
Per questa parte l'art. 19 della direttiva sul riconoscimento era
sufficientemente preciso e tale da rendere edotti gli interessati ed in
particolare l'attuale ricorrente che la laurea in medicina, conseguita al
termine di un corso di studi iniziato successivamente alla data suindicata,
non avrebbe dato diritto all'iscrizione nell'albo degli odontoiatri. Il
termine di sei anni, concesso all'Italia per l'adattamento del diritto
interno alla disciplina comunitaria, concerneva la creazione degli strumenti
ed istituti propri del nuovo ordine professionale, ma non riguardava la
disciplina dei titoli di formazione professionale ed il tempo di inizio di
questa. Non si puo' sospettare, quindi, alcuna lesione del principio di
ragionevolezza nelle norme che limitano l'iscrizione all'albo degli
odontoiatri a coloro che hanno iniziato la loro formazione professionale
prima del 28 gennaio 1980.
Parimenti manifestamente infondato e' il sospetto di contrasto delle
norme in questione con l'art. 4 della Costituzione. La norma costituzionale
non stabilisce il diritto assoluto ad esercitare senza limiti qualsiasi
lavoro e lascia al legislatore ordinario di stabilire le regole, non
irragionevoli, per lo svolgimento delle attivita' lavorative, in particolare
poi per quelle, come le attivita' professionali, che incidono sugli
interessi di una comunita' indeterminata di soggetti (v., tra le molte,
Corte Costituzionale 30 marzo 1977 n. 54; 28 aprile 1983 n. 109; 19 gennaio
1988 ord. n. 58 e 71; 7 novembre 1994 n. 380).
In conclusione, dalla inapplicabilit\, per tutte le considerazioni
esposte, della citata l. 471/88, sulla quale il motivo si basa, consegue
l'infondatezza del medesimo.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese del presente giudizio.

                            P.Q.M.  

la Corte,  a  sezioni  unite,  rigetta  il  ricorso e compensa le spese del  

giudizio di cassazione.

Cos\u00C5\u00BD deciso il 11 dicembre 1997 .

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