Sentenza del 11/11/2015 n. 23027 - Corte di Cassazione - Sezione/Collegio 5
RITENUTO IN FATTO
L'Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento a carico della società "V. s.p.a." (già "H. s.r.l."), svolgente attività di consulenza nel settore della pubblicità e del marketing, a titolo di Irpeg, Irap ed Iva dell'anno 2001, in relazione ai rilievi 5) e 6) del processo verbale di constatazione del 22.12.2004, corrispondenti, rispettivamente, alla indeducibilità ed indetraibilità dell'Iva per insufficiente documentazione dei costi relativi a prestazioni di servizi infragruppo, nonché dei costi per il riconoscimento di premi di fine anno alla società "A. s.r.l.".
La C.T.P. di Milano, adita dalla contribuente, riduceva la ripresa 5) ed annullava integralmente la 6).
Avverso la sentenza di primo grado proponevano appello principale la contribuente ed appello incidentale l'Ufficio.
La C.T.R. della Lombardia, respinta la censura di nullità dell'avviso di accertamento per difetto di motivazione, rigettava l'appello principale della società ed accoglieva l'appello incidentale dell'Ufficio sul rilievo 5), ritenendo trattarsi di c.d. costi di regia per i quali la documentazione prodotta dalla contribuente (fatture e note di riaddebito recanti diciture del tutto generiche) non era sufficiente a determinarne la effettività, certezza, congruità e determinabilità.
Accoglieva altresì l'appello incidentale dell'Ufficio sul rilievo 6), ritenendo che, in assenza di accordi tra le parti, non avesse alcun rilievo probatorio il fax inviato da una società del gruppo, la "C.I. s.p.a.", a P.S., della "A.M.P. s.r.l.", con cui si riconoscevano i premi di fine anno.
Per la cassazione della sentenza d'appello n. 97/44/08 del 24.11.2008, la contribuente ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, cui l'Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso, la società contribuente deduce la illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici di seconde cure hanno respinto il motivo di appello della Società afferente al difetto assoluto di motivazione dell'avviso di accertamento dedotto in giudizio in relazione al recupero a tassazione corrispondente al rilievo n. 5 del p.v.c. (maggiore imponibile pari ad Euro 816.256,84), per violazione e falsa applicazione del combinato disposto del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, comma 2, L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1; L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3 nonché dell'art. 24 Cost., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
1.1. Formula al riguardo il seguente quesito di diritto: voglia codesta eccellentissima Suprema Corte dire se, in una fattispecie quale quella qui in giudizio, data dall'esercizio, da parte dell'Agenzia delle Entrate, di una pretesa fiscale recata da un avviso di accertamento che, sotto il profilo della motivazione, enuncia una pluralità di ragioni giustificative a fondamento della pretesa medesima, alternative e fra loro contrastanti (in specie, quelle afferenti alla contestazione della effettività, certezza, determinabilità, congruità ed inerenza di un costo) sia o meno applicabile la regola giuridica secondo cui, ai sensi del combinato disposto del D.P.R. n. 600 citato, art. 42, comma 2, L. n. 212 citata, art. 7, comma 1, L. n. 241 citato, art. 3 nonché dell'art. 24 Cost., nell'interpretazione ritenuta corretta da codesta difesa, un avviso di accertamento motivato nei termini sopra descritti è nullo, in quanto recando una motivazione non dotata del requisito della univocità, risulta viziato da difetto sostanziale della stessa, integrando una manifestazione di eccesso di potere, con conseguente lesione del diritto di difesa del contribuente che, al fine di tutelate la propria posizione, si vede costretto ad un esercizio difensivo difficile/impossibile dovendo articolare la propria difesa avverso tutti i "potenziali" profili di contestazione enunciati nella motivazione dell'avviso di accertamento, ancorchè tra loro contrastanti.
1.2. Il motivo è inammissibile.
1.3. Esso risulta affetto invero da autosufficienza, poiché non contiene la trascrizione integrale, in parte qua, della motivazione dell'atto impositivo censurato, con conseguente preclusione dello stesso sindacato che si invoca in questa sede. Nel merito, peraltro, la corte regionale - cui era stata sottoposta la medesima censura - ha dato atto che "l'avviso di accertamento di contro si appalesa ampio e fondatamente circostanziato".
2. Con il secondo mezzo la ricorrente adduce la illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici di seconde cure hanno respinto il motivo di appello della Società afferente all'illegittimità/infondatezza del recupero a tassazione corrispondente al rilievo n. 5 del p.v.c. (maggiore imponibile pari ad Euro 816.256,84), per violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).".
2.1. Il correlato quesito di diritto recita: "voglia codesta eccellentissima Suprema Corte dire se, in una fattispecie quale quella qui in giudizio, data dall'esercizio, da parte dell'Agenzia delle Entrate, di una pretesa fiscale avente ad oggetto la (presunta) indeducibilita di costi afferenti a prestazioni di servizio ricevute da società consociate alla contribuente ed in relazione alle quali sia contestata l'effettività, pur in presenza delle relative fatture passive ricevute, del contratto sottostante alle medesime e di un'ordinata contabilità (documenti regolarmente prodotti dalla contribuente già nel corso della verifica fiscale e di cui non è contestata l'attendibilità), sia applicabile la regola giuridica prevista dall'art. 2697 cod. civ., nell'interpretazione ritenuta corretta da questa difesa, secondo cui, nella fattispecie sopra descritta, la prova circa l'inesistenza/fittizietà delle operazioni sottostanti ai costi oggetto di contestazione spetta all'Agenzia delle Entrate, in luogo di quella applicata dai secondi Giudici, i quali (respingendo la relativa eccezione del contribuente in ordine alla violazione delle regole di riparto dell'onere della prova) hanno confermato la pretesa impositiva "de qua", rilevando, in particolare, che spetta al contribuente documentare/dimostrare che i costi esistano"".
2.2. Il motivo è inammissibile, prima ancora che infondato.
2.3. La censura non coglie invero la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale non è fondata su una erronea ripartizione dell'onere probatorio, bensì - e chiaramente - sulla insufficienza ed inadeguatezza dei documenti (doverosamente) allegati dalla contribuente a supporto dell'invocata detrazione, avendo i giudici d'appello rilevato che, a fronte della "rifatturazione di quote di costi comuni - ed costi di regia - per prestazioni di servizi infragruppo", le fatture allegate portavano "come descrizione unicamente e testualmente "riaddebito banche dati - anno 2001" e "riaddebito spese generali - anno 2001", senza altre spiegazioni, allegati o consuntivi al di fuori delle corrispondenti ed altrettanto sintetiche note di riaddebito servizi del 12/2/02". In questa prospettiva, viene meno - a monte - lo stesso presupposto da cui muove la ricorrente, ossia che la società avrebbe pienamente documentato l'esistenza dei costi sostenuti.
2.4. Merita comunque rilevare che costituisce ius receptum il principio per cui, in materia di costi c. d. infragruppo (ovvero laddove la società capofila di un gruppo d'imprese decida di fornire servizi o curare direttamente le attività di interesse comune alle società del gruppo, ripartendone i costi fra di esse, al fine di coordinare le scelte operative delle aziende formalmente autonome e ridurre i costi di gestione attraverso economie di scala), "l'onere della prova in ordine all'esistenza ed all'inerenza dei costi sopportati incombe sulla società che affermi di aver ricevuto il servizio, occorrendo, affinché il corrispettivo riconosciuto alla capogruppo sia deducibile ai fini delle imposte dirette e l'IVA contestualmente assolta sia detraibile, che la controllata tragga dal servizio remunerato un'effettiva utilità e che quest'ultima sia obiettivamente determinabile e adeguatamente documentata" (v. Cass. nn. 8808/2012, 11949/2012, 11949/1999). In tal senso è stata perciò ritenuta legittima la prassi amministrativa (C.M. n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980) che, al di lì della forfetizzazione percentuale dei costi riaddebitati dalla capogruppo alle controllate, subordina la deducibilità dei costi derivanti da accordi contrattuali sui servizi prestati dalla controllante (cost sharing agreements) all'effettività e all'inerenza della spesa all'attività d'impresa esercitata dalla controllata ed al reale vantaggio che deriva a quest'ultima, non ritenendosi sufficiente l'esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi fornite dalla controllante alle controllate e la fatturazione dei corrispettivi, ma richiedendosi la specifica allegazione di quegli elementi necessari per determinare l'utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio (Cass. n. 16480/2014).
3. Il terzo motivo veicola una censura di "illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici di seconde cure hanno respinto il motivo di appello della Società afferente all'illegittimità/infondatezza della pretesa fiscale corrispondente al rilievo n. 5 del p.v.c. (maggiore imponibile pari ad Euro 816.256,84), perché recante una motivazione insufficiente in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)".
3.1. In sintesi, posto il fatto controverso e decisivo "se in relazione ai costi sostenuti dalla società per i servizi infragruppo ricevuti dalle consociate C.I. e C.E. in forza del contratto di servizi del 19 gennaio 2001 sussistano, o meno, gli elementi fattuali idonei a considerare i costi medesimi inerenti all'attività d'impresa svolta dalla ricorrente ed utili, sotto il profilo economico, alla medesima", parte ricorrente lamenta che il giudice d'appello non avrebbe "vagliato criticamente e puntualmente/specificamente gli elementi e le deduzioni fornite dal contribuente a dimostrazione dell'inerenza, e dell'utilità economica dei costi in considerazione (dai secondi Giudici neppure considerati - cfr. bilancio della Società e dichiarazioni dei redditi presentate dalle consociate C.I. e C.E. - ovvero considerati in maniera superficiale - cfr. contratto di servizi, fatture passive ricevute e rendiconti consuntivi afferenti al medesimo)".
3.2. Il motivo è infondato.
3.3. Invero, sul punto in contestazione la motivazione non risulta affatto insufficiente, bensì ampia ed articolata (da pagina 7 a pagina 9 della sentenza gravata), attraverso una specifica selezione e disamina dei documenti prodotti dalla contribuente, ritenuti rilevanti ai fini del decidere; ne consegue che, a ben vedere, sotto l'apparenza di una censura di insufficienza motivazionale, si intende in realtà contestare il merito della decisione, così contravvenendosi, però, al granitico orientamento di questa Corte (ex plurimis, Cass. n. 14233 del 2015) per cui il controllo di adeguatezza e logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), - nella versione vigente ratione temporis - non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, che si risolverebbe nella riformulazione del giudizio di fatto, incompatibile con la funzione assegnata dall'ordinamento al giudizio di legittimità (Cass. nn. 959 e 961 del 2015), spettando in via esclusiva al giudice di merito la selezione degli elementi del suo convincimento (Cass. n. 26860 del 2014, n. 962 del 2015).
4. Il quarto ed ultimo mezzo concerne la pretesa "illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici di seconde cure hanno accolto il motivo di appello incidentale dell'Ufficio in relazione al recupero a tassazione corrispondente al rilievo n. 6 del p.v.c. (maggiore imponibile pari ad Euro 71.012,82), per violazione e falsa applicazione del combinato disposto artt. 19, d.P.R. n. 633 citato, 75 (ora 109), quinto comma, d.P.R. n. 917, citato, e 1350 cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3) cod. proc. civ.".
4.1. Questo il corrispondente quesito di diritto: "voglia codesta eccellentissima Suprema Corte dire se, in una fattispecie quale quella qui in giudizio, data dall'esercizio, da parte dell'Agenzia delle Entrate, di una pretesa fiscale (quella relativa a premi di fine anno) che si basa sulla tesi per cui costi (1) riflessi da fatture passive ricevute da un soggetto estraneo al gruppo societario cui appartiene il contribuente, nell'ambito di un rapporto contrattuale non formalizzato in accordi scritti, (2) non sarebbero deducibili ai fini dell'imposizione diretta, in quanto non sufficientemente documentati, ancorchè la volontà delle parti risulti anche da uno scritto - la cui genuinità non è contestata nè censurata dal Giudice - proveniente da un soggetto terzo al rapporto contrattuale, appartenente al medesimo gruppo societario di uno dei due contraenti, che svolge a favore di tutte le società del gruppo attività di carattere amministrativo, ivi compresa l'attività di coordinamento nella gestione dei rapporti commerciali, sia, o meno, applicabile il combinato disposto del D.P.R. n. 633 citato, art. 19 D.P.R. n. 917 citato, art. 75 (ora 109), comma 5, e art. 1350 cod. civ., nell'interpretazione ritenuta corretta da questa difesa, secondo cui, stante il principio della libertà delle forme, il contribuente può documentare, ai fini della deducibilità di un costo dal reddito d'impresa, il contenuto degli accordi contrattuali non formalizzati per iscritto in qualunque modo, compresi atti provenienti da un soggetto terzo al rapporto contrattuale che rivelino la comune intenzione delle parti, non essendo ai fini fiscali necessaria la produzione di un accordo stipulato per iscritto".
4.1. Il motivo è inammissibile.
4.2. Con esso viene infatti addebitata ai giudici di seconde cure una violazione di legge (error in iudicando), quando invece dalla lettura della sentenza gravata si evince chiaramente che si è di fronte ad una questione di valutazione delle prove offerte dalla parte onerata, avendo i giudici regionali espressamente negato, "in riscontrata ed incontestata assenza di atti di accordo tra le parti", la rilevanza probatoria della "mera copia di un fax inviato da soggetto terzo alla transazione, ovvero C.I. spa, a P.S. della A.M.P. srl, asseritamene riconoscente premi di fine anno 2001". Va quindi ribadita l'impossibilità di ottenere dal Giudice di legittimità una rivisitazione dei fatti, essendo pacifico che il ricorso per cassazione non può costituire uno strumento per accedere ad un terzo grado del giudizio di merito, nel quale far valere la pretesa ingiustizia della sentenza impugnata; esso è infatti un rimedio impugnatorio a critica vincolata e a cognizione determinata dall'ambito dei vizi dedotti, sicché è inammissibile un ricorso che tenda a sollecitare una nuova valutazione di risultanze di fatto, o comunque a mettere in discussione il contenuto di fatti storici e vicende processuali sulle quali il giudice d'appello abbia espresso opzioni "non condivise e per ciò solo censurate, al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità" (Cass. s.u. n. 7931 del 2013; conf. Cass. n. 12264 del 2014 e n. 3396 del 2015).
5. In conclusione, il ricorso va respinto, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del grado, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili i motivi primo, secondo e quarto, rigetta il terzo e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 22 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria l'11 novembre 2015
Registrati al nostro portale per accedere al motore di ricerca delle sentenze.
RegistratiSentenze.io 2023